L'angolo dello scrittore

Se anche la protesta perde il suo senso politico

 Uno dei tanti giovani precari venuti lo scorso 9 aprile a Roma per manifestare, confessa la sua delusione e la sua stanchezza per una ritualità delle dimostrazioni di piazza – il corteo, la musica tecno, la birra, le ‘canne’ – che risulta marginale e innocua, non più capace di perturbare minimamente il potere. Forse nella coscienza infelice della “generazione P” c’è la percezione di uno stare ancora ‘troppo bene’ per poter arrivare ad un fondo di disperazione e di consapevolezza radicali da cui possa nascere la volontà davvero di cambiare le cose e di far paura al governo.

di Stefano Calzati tratto da Retididelaus

Sabato 9 Aprile u. s., tantissimi lavoratori precari sono scesi per le vie della Capitale, così come nelle piazze delle principali città d’Italia, non già per reclamare un aumento salariale od obblighi contrattuali, ma più in generale – e in maniera alquanto emblematica – per riappropriarsi del loro futuro. Centinaia di migliaia di precari hanno sfilato – rifiutando qualsiasi cappello politico – con l’obiettivo di “farsi vedere” e (ri)conquistare finalmente il loro spazio vitale all’interno di una società sorda a qualsiasi richiesta e troppo intenta ad riprodursi nella sua ottusa autoreferenzialità.

Anch’io sono sceso in strada a Roma. Ero lì, a Piazza della Repubblica e poi a Piazza Vittorio e da lì fino al Colosseo; ero tra i precari, insieme a loro, perché anch’io sono uno di loro, sono un precario che si è visto costretto, in più di una circostanza, ad abbandonare il Belpaese – già il Belpaese (?) – per trovare all’estero quei riconoscimenti meritocratici ed economici che in Italia non avrei mai trovato, nonostante gli ottimi studi e diverse esperienze professionali maturate, per l’appunto, à l’étranger. L’idea portante della manifestazione era forte: le scelte “hors d’agenda” dell’odierna classe dirigente ci stanno scippando l’avvenire, ragion per cui non è più il tempo di porre domande e aspettare risposte, ma di agire in prima persona per avere da oggi ciò che cerchiamo da anni: certezze (lavorative, sociali e di vita) e un Domani. Gli aspetti positivi di questa manifestazione erano, a mio modo di vedere, due: la volontà di mantenersi indipendenti da qualsiasi partito e il fatto che, per la prima volta da tanto tempo, si trattava di una manifestazione, non già contro qualcuno o contro qualcosa, ma pro: per noi stessi e per il nostro futuro, appunto. Tante volte sono sceso in piazza in questi anni: dalle manifestazioni del Popolo Viola, a quelle di Piazza del Popolo per la libertà di stampa e per celebrare la più che presunta unità d’intenti della galassia di movimenti di Sinistra, fino alle manifestazioni contro la guerra. In pratica, sono sceso in piazza ogni volta che, trovandomi in Italia, vi fosse una occasione che condividessi e in cui mi riconoscessi.

Guardandomi indietro però avverto – palese – il fardello dell’inefficacia fattuale di tutte queste manifestazioni, ivi compresa quella dei precari. E mi sono domandato il perché, di tanta tremenda inefficacia; dove nasca il sentimento di frustrazione e il conseguente senso di incompiutezza che tutte le manifestazioni a cui ho partecipato mi hanno lasciato dentro, senso che non è altro, in fondo, se non l’amara constatazione che la propria voce, le proprie lotte e le proprie idee rimangano puntualmente inascoltate. Davvero la società post-borghese è riuscita, in senso pasoliniano, a narcotizzare l’eco delle rivendicazioni sociali e civili, marginalizzandola in una sacca di accettazione marginale e innocua? Davvero protestare è diventato – de facto – inutile, dal momento che nulla sembra più imbarazzare il Potere?

Queste erano le domande che mi ponevo mentre, precario tra altri precari, sfilavo per le vie di Roma fino al Colosseo. Era una calda e insolita giornata di sole e le persone e l’atmosfera intorno a me erano cariche di un’insospettabile spensieratezza. Com’è possibile? Mi sono chiesto, allora; com’è possibile che le proteste di piazza si trasformino, sempre più spesso, in una sorta di raduno festaiolo, scandito dalla musica tecno dei carri, dalle bottiglie di Peroni da 66cl e dalle canne di marjuana? Dove sono le motivazioni e la disperazione che hanno spinto decine di migliaia di persone a scendere in piazza per condividere l’idea che “Il nostro futuro è adesso”? Dov’è la rabbia? Non voglio certo criticare l’idea che le manifestazioni possano essere un momento positivo e – perché no? – allegro di aggregazione e collettivizzazione del disagio; tuttavia vorrei evidenziare come spesso non vi sia la piena consapevolezza delle proprie ragioni, con la conseguenza di svuotare qualsivoglia protesta di reali istanze politiche e ideologiche. Ma se non riusciamo a farci portatori – in prima persona e giorno dopo giorno – della nostra necessità di cambiamento, non cambieremo mai la nostra condizione. E allora ho pensato davvero che forse stiamo ancora troppo bene per poter conoscere quella miseria umana da cui nasce, necessariamente, “l’incazzo” di cui abbiamo bisogno come generazione prima ancora che come precari o disoccupati. Per anni siamo stati viziati da un sistema dell’opulenza senza freni inibitori che ci regalava l’illusione di un benessere senza tempo; per anni siamo stati spinti a pensare in maniera individualistica ai nostri obiettivi esistenziali e a svilire – consciamente e inconsciamente – il valore stesso dell’onestà e della condivisione; per anni non abbiamo alzato a sufficienza la voce contro il declino sociale, civile e morale del Paese. Ma ora che ci troviamo a dover lottare – insieme – contro un presente di sacrifici e per un futuro di maggiori certezze, non sappiamo come si fa – nessuno ci ha detto come si fa – e allora ci proviamo con quell’aria un po’ scanzonata e ingenua che ci trasforma tutti in un teatrino senza legittimità. La protesta è già qualcosa (la speranza non è sufficiente, è chiaro), ma come ha scritto Pietro Ingrao “indignarsi non basta più”. Se davvero vogliamo essere ascoltati e se davvero vogliamo prenderci il nostro futuro, dovremo essere in grado di instillare nelle nostre grida un senso di disperazione e di consapevolezza tali da far tremare lo status quo da cui siamo soffocati. Altrimenti saremo semplicemente annientati dall’oblio della Storia.